martedì 28 febbraio 2012

Luca Abbà, leader dei No TAV Val di Susa, in coma. Un incidente annunciato?


Appunti da: NewsFan


No Tav: Luca Abbà in prognosi riservata dopo caduta da traliccio in Val di Susa


No Tav: Luca Abbà in prognosi riservata dopo caduta da traliccio in Val di Susa

Il leader del movimento di protesta in Val di Susa contro la costruzione della linea ad alta velocità Torino Lione è ancora ricoverato in gravi condizioni presso il Cto di Torino. Resta in prognosi riservata e, secondo l’ultimo bollettino medico, è ancora in pericolo di vita. Alcuni elementi, però, farebbero pensare a condizioni migliori di quanto previsto: i reni funzionano bene e ciò potrebbe portare ad una rapida ripresa, con tutti i distingui del caso.

La rabbia per quanto è accaduto, tuttavia, monta di ora in ora. Ieri in numerose piazze italiane, da nord a sud, si sono svolte delle manifestazioni e dei sit in di protesta. A cominciare dal centro dove è ricoverato Luca: centinaia di amici e sostenitori del movimento della Val di Susa, hanno organizzato una lunghissima veglia, accampandosi all’esterno della struttura sanitaria. Ricordiamo che il giovane Abbà, manifestante e agricoltore, stava protestano ieri proprio per gli espropri militarizzati in atto nella valle. 


Cosa è successo al leader del movimento? Le immagini presenti alla fine dell’articolo fanno rabbrividire. Nel video della polizia di stato si vede chiaramente un “rocciatore” avvicinarsi a Luca. Il giovane, come confermato in un collegamento in diretta su una radio locale, ha minacciato di “appendersi ai fili” dell’alta tensione qualora qualche membro delle forze dell’ordine avesse provato a prenderlo.

Ecco due video con le immagini della terribile tragedia di ieri in Val di Susa.








Sapevamo che l'Italia non è un paese per vecchi. Ora sappiamo che non è neanche un paese per giovani.

lunedì 20 febbraio 2012

Una rete "ombra" per difendersi dalla censura

Appunti da : Repubblica

 

Secondo Scientific American, il crescente controllo governativo e aziendale sulla Rete ne ha ormai compromesso la decentralizzazione. Un antidoto potrebbe venire dal mesh networking, sistema in cui tutti gli utenti diventano "staffettisti" dei dati. A patto di rinunciare alla pigrizia

 

di GIULIA BELARDELLI

 

ll progetto: una rete "ombra" per difendersi dalla censura  
Eben Moglen 



CREARE un web-ombra che sia immune a ogni bavaglio e sappia restituire a Internet il fascino della sua promessa originale: l'inarrestabilità. A questa missione, resa ancor più attuale dai recenti episodi di censura (dall'Egitto alla Siria), si dedica una piccola ma agguerrita comunità di attivisti digitali. Ad accomunarli è la convinzione che negli ultimi due decenni Internet abbia piegato la testa di fronte alle logiche commerciali del sistema ISP (Internet Service Provider), che ha concentrato nelle mani di poche grandi aziende il potere di gestire il traffico di enormi quantità di dati.

Nel suo numero di marzo, la rivista Scientific American accende i riflettori su una delle alternative a cui l'attivismo digitale crede di più: le cosiddette "wireless mesh network", reti nelle quali gli utenti si collegano direttamente gli uni agli altri senza l'intermediazione di service provider. Lo sviluppo di queste reti (che in italiano possiamo definire "a maglia") presenta diversi vantaggi, ma anche una serie di sfide che varia di volta in volta a seconda dell'utilizzo che se ne immagina. Questa variabilità emerge già nelle anime dei due progetti di mesh networking ad oggi più avanzati: Commotion (finanziato dal Dipartimento di Stato Usa) e FreedomBox (creatura figlia della Free Software Foundation). Come spiega chiaramente Julian Dibbell, autore dello speciale di Scientific American,
non si tratta di ripartire daccapo (non sarebbe realistico), ma piuttosto di creare una Rete-ombra a protezione della stessa Internet e di tutti i suoi utenti.

La minaccia della censura. Secondo molti attivisti, il momento topico nella storia della censura di Internet ha una data precisa: il 28 gennaio 2011. Quella mattina il governo egiziano, dopo tre giorni di proteste anti-regime organizzate soprattutto su Facebook e altri social network, fece qualcosa che non si era mai visto prima: tolse la spina a Internet. Ancora oggi non si sa esattamente cosa accadde quel giorno, ma sembra che sia bastata una manciata di telefonate "ai numeri giusti" - quelli dei cinque più grandi Internet provider del paese - per lasciare il 93% della popolazione al "buio digitale". Per fortuna, alla fine il blackout servì a poco: il giorno dopo Tahrir Square fu invasa da una folla enorme e i manifestanti ebbero la meglio. Si trattò però di una grande lezione sulla "vulnerabilità di Internet al controllo dall'alto". Il pericolo era ormai sotto gli occhi di tutti.

Un altro esempio si è avuto durante la rivoluzione tunisina, anche se le autorità scelsero un approccio più mirato bloccando solo alcuni siti dall'Internet nazionale. Il governo iraniano, invece, durante le proteste post elettorali del 2009, rallentò il traffico in tutto il paese, piuttosto che fermarlo tout court. Senza parlare della Cina, dove il "Golden Shield Project" (il "Grande Firewall") consente da anni al governo di bloccare qualsiasi sito gli sia sgradito. O ancora della Siria, che in questo preciso momento ostacola la libera circolazione delle informazioni con una fitta coltre di blocchi. Nelle democrazie occidentali - precisa Dibbell - il controllo non è certo a questi livelli, sebbene il consolidamento dei service provider abbia permesso a un ristretto gruppo di aziende di controllare porzioni sempre più grandi di traffico, dando ai privati la possibilità di favorire i propri partner a spese della concorrenza e rendendoli suscettibili alle lusinghe (o alle minacce) del potere.

La promessa tradita. Per capire la delusione degli attivisti nei confronti del volto odierno della Rete bisogna tornare alle sue origini, in particolare a quella decentralizzazione che ne fu uno dei principi ispiratori. Almeno in parte, infatti, Internet affonda le sue radici nell'epoca della Guerra Fredda, quando i due blocchi erano in cerca di un'infrastruttura così robusta da resistere persino a un attacco nucleare. Di qui la necessità (tecnicamente realizzata poi con il protocollo TCP/IP) di sviluppare un sistema che fosse capace di continuare a trasportare dati al di là di quanti nodi venissero bloccati e di quale fosse la causa (regime repressivo piuttosto che attacco nucleare). Secondo l'attivista per i diritti digitali John Gilmore, Internet, dotata di questa infrastruttura, sarebbe stata capace di "interpretare la censura come un guasto e per questo aggirarla". Con il senno di poi, possiamo dire che le cose non sono andate esattamente così.

Internet centralizzata, i rischi. Negli ultimi due decenni, infatti, la Rete è cresciuta secondo il modello dei grandi Internet service provider, in cui la macchina del cliente non è più un nodo su cui fare affidamento, ma un ramo morto configurato solo per mandare e ricevere tramite macchine di proprietà del provider. In pratica - spiega ancora Dibbell - oggi la maggior parte degli utenti individuali esiste ai margini del network ed è connessa agli altri solo attraverso uno di questi provider: se il collegamento viene bloccato, per queste persone l'accesso a internet scompare. Piuttosto che rafforzare le difese immunitarie di Internet, insomma, il sistema ISP è diventato l'interruttore d'emergenza con cui spegnerla.

Scoprendo il mesh networking. È per contrastare questi pericoli che alcuni gruppi puntano sulle potenzialità dei "wireless mesh network" (reti wireless a maglie), semplici sistemi che connettono gli utenti finali gli uni agli altri e aggirano automaticamente ogni tipo di blocco e censura dando a tutti i nodi lo stesso peso. Il mesh networking è una tecnologia relativamente giovane, ma il suo principio è lo stesso che ha ispirato la nascita di Internet, ovvero l'instradamento di pacchetti di dati in modalità "store-and-forward" ("immagazzina e rinvia"), in cui ogni computer connesso alla rete è in grado non solo di mandare e ricevere dati, ma anche di fare affidamento sugli altri computer connessi. Una rete a maglie, in particolare, fa in modo che tutti gli utenti agiscano come "staffettisti" dei dati, abbandonando i panni del "consumatore di Internet" per vestire quelli del "provider fai-da-te".

Commotion, l'Internet in valigia. Negli Stati Uniti il mesh networking è promosso soprattutto dalla New America Foundation, influente think tank che è riuscito a ottenere un finanziamento dal Dipartimento di Stato di 2 milioni di dollari per il suo progetto: Commotion 1. Il principale ideatore è Sascha Meinrath, ex studente della University of Illinois e fautore della Champaign-Urbana Community Wireless Network, una delle prime reti a maglia degli Usa. Nel 2005 portò la tecnologia nella Louisiana devastata dall'uragano Katrina, allestendo una rete mesh che riabilitò le telecomunicazioni lungo un'area di 60 chilometri all'indomani della tragedia.

"L'obiettivo a breve termine del progetto è sviluppare una tecnologia capace di circumnavigare ogni tipo di interruttore-killer o sorveglianza centrale", ha spiegato Meinrath. Per questo, insieme ad altri progettisti, ha creato un prototipo chiamato "Internet in valigia", un kit composto dallo stretto indispensabile per mettere in piedi delle comunicazioni wireless e sufficientemente piccolo da sfuggire a ben altre maglie, quelle dei controlli doganali. Una volta introdotto nel territorio di un governo repressivo, i dissidenti e gli attivisti sarebbero in grado di fornire una copertura Internet inarrestabile. Il sistema contenuto nella valigetta è abbastanza semplice da installare e utilizzare: secondo Meinrath, qualsiasi appassionato di tecnologia sarebbe capace di metterlo in funzione. L'obiettivo finale, però, è rendere il sistema ancora più accessibile alla maggioranza. Come? "Sintetizzando questo passaggio in una semplice applicazione che pigiando un tasto faccia diventare i nostri stessi dispositivi (computer, smartphone, tablet, wireless router, e così via) parte integrante dell'infrastruttura", ha spiegato Meinrath.

FreedomBox, una lotta per la libertà. Ancora più rivoluzionario è FreedomBox 2, progetto avviato da Eben Moglen, professore di Legge alla Columbia University di New York. Anche in questo caso si tratta di un prototipo grande quanto un mattone e dal costo di 149 dollari (destinato, dicono i creatori, a scendere presto a meno della metà). Al di là della promessa di libertà della scatola, la vera rivoluzione è nei codici di programmazione che si porta dietro: se inseriti nelle CPU dei diversi dispositivi, questi diventerebbero infatti delle FreedomBox a pieno titolo. In questo modo - immagina Moglen - ogni oggetto dotato di indirizzo IP (tra cui anche i più recenti frigoriferi) potrebbe entrare in rete e aprire di fatto la porta alla decentralizzazione non solo del traffico delle comunicazioni, ma anche dei dati stessi, rendendo così realtà l'Internet delle Cose 3. Ovviamente si tratta di uno scenario ipotetico, la cui fattibilità dipenderà dalla "volontà politica delle nuove generazioni".

La condanna, qui, è anche per servizi cloud come Facebook e Google, che secondo gli attivisti minacciano la privacy e la libertà d'espressione almeno quanto la concentrazione del traffico nei service provider. La speranza di Moglen e colleghi è che i giovani si rendano conto che non vale la pena barattare privacy e libertà in cambio della facilità di utilizzo, e che scelgano di dare vita a un movimento politico per certi versi somigliante a quello ambientalista. Di strada da fare ce n'è molta - ammettono dalla FreedomBox Foundation - ma a quanto pare ci sono schiere di giovani programmatori pronti a darsi da fare. Se davvero ci sarà un web-ombra, d'altronde, spetterà a loro il compito di costruirlo, mattone dopo mattone.
(18 febbraio 2012)


Appunti da : Repubblica