Pubblicato il
Arrestato nel settembre del 2008, aveva dato anche in precedenza ripetuti segni di fragilità psichica. Oltre a due tentativi di suicidio, c’erano anche due trattamenti sanitari obbligatori e numerosi ricoveri in comunità di recupero per tossicodipendenti. IL PADRE Michele e il suo avvocato Maria Pina Blanco non avevano risparmiato gli sforzi per sottrarlo ad un destino che non doveva essere il suo, quello del carcere. Anche perché, stando dietro le sbarre, il suo stato di salute mentale peggiorava visibilmente. Da mesi chi lo assisteva aveva sollevato la questione con la direzione sanitaria della struttura. Ma nemmeno l’istanza urgente depositata dal legale alla Corte d’appello il 22 giugno scorso, con la quale si chiedeva «l’immediato ricovero presso idonea struttura sanitaria», aveva avuto ascolto. Respinta un mese dopo. Altri 19 giorni e Luca veniva trovato impiccato nel bagno della sua cella, attaccato con le lenzuola alle sbarre della finestrella. Non era solo nella stanza, il ragazzo. CON LUI TRE compagni, tutti però con problemi psichici di vario tipo, comuni tra gli ospiti del reparto che accoglie detenuti in procinto di ricovero o ritenuti «a rischio suicidio». Luca Campanale, arrivato nel carcere milanese a fine luglio proveniente da Pavia dove era sorvegliato a vista, era destinato al Centro di osservazione neuro-psichiatrico interno, che però non aveva letti liberi in quel momento. IL PM Silvia Perrucci ha iscritto nell’elenco degli indagati i nomi del medico psichiatra e di una psicologa del carcere di San Vittore. Nonostante la storia che Luca aveva alle spalle e tutta la documentazione prodotta dall’avvocato Blanco, secondo l’accusa non presero sul serio il rischio che il giovane si togliesse la vita. «Riferisce di non avere intenti autolesionisti», scrissero suppergiù nella loro relazione i sanitari. Dieci giorni dopo, Campanale era morto.
di MARIO CONSANI
Nessun commento:
Posta un commento