martedì 31 gennaio 2012

Lega Nord Emilia: Prepararsi alla Secessione!





Non serve un giornalista per gestire un blog


Fonte: ICTLEX




Una sentenza della Corte di cassazione fa chiarezza sul regime giuridico della pubblicazione online. Solo i siti di informazione professionale devono essere registrati in tribunale e devono avere un direttore responsabile.
Un forum online non è assimilabile a una testata giornalistica e non è soggetto agli obblighi e alle tutele previste dalla legge sulla stampa. E’ pertanto legittima l’applicazione di misure cautelari anche preventive, quali il sequestro di messaggi illeciti. Questo, in sintesi, è il principio di diritto espresso dalla sentenza della III sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 10535.
Il caso che ha originato la sentenza è quello del sequestro di contenuti di un forum online in cui degli utenti avevano espresso in toni molto pesanti le proprie critiche alla religione cattolica. A seguito della denuncia, il magistrato inquirente ha ritenuto eccessivi i contenuti dei messaggi in questione e ha richiesto il sequestro che, in prima battuta, ha riguardato l’intero forum e poi è stato limitato ai soli post incriminati.
La vicenda è arrivata sino in Corte di cassazione perchè i gestori del sistema di messaggistica ritenevano che il sequestro anche solo dei singoli messaggi fosse una lesione della libertà di stampa, tutelata dalla Costituzione. Poco importa, dicono i difensori, se le norme vigenti in materia non si riferiscono esplicitamente all’internet. Anche se esistesse un vuoto normativo, i giudici dovrebbero colmarlo tramite la cosiddetta “interpretazione evolutiva”, che consentirebbe di dare nuovo significato ad articoli di legge scritti nell’era pre-internet.
La Corte di cassazione non ha condiviso questa tesi e ha confermato la correttezza del sequestro dei messaggi ritenuti offensivi, con dei ragionamenti di estrema semplicità e interesse. Con una sentenza coraggiosa, finalmente i giudici hanno inquadrato correttamente l’annoso problema della qualificazione giuridica di un servizio di pubblicazione di contenuti. Hanno stabilito che non tutto ciò che viene pubblicato in rete può essere qualificato come “stampa” e assoggettato agli obblighi previsti per le testate giornalistiche. Il che risolve, speriamo definitivamente, l’annosa polemica sull’obbligo di dotare siti internet e servizi di messaggistica della presenza di un giornalista e della registrazione in tribunale, suscitata da interventi legislativi (la L. 62/01 che estende la nozione di prodotto editoriale anche al mondo digitale) e sentenze di primo grado meno addentro alle “cose della rete” (la decisione del tribunale di Modica che condannò per stampa clandestina il gestore di un blog privo della registrazione in tribunale).
Come scrivevano sul numero 212 di PC Professionale commentando la decisione siciliana, che equiparava un sito a una giornale per la presenza di un header , “basterebbe eliminare gli header e le date di pubblicazione e aggiornare i contenuti senza particolari cadenze per non violare la legge. Per non parlare del fatto che, oltre ai siti internet, anche le mail formattate in HTML possono essere a tutti gli effetti realizzate come se fossero la pagina di un giornale. Anche in questo caso, allora, violare la legge dipenderebbe dall’avere o meno attivato la composizione in RTF o HTML di un messaggio di posta elettronica?”
La sentenza della Cassazione è la risposta al paradosso enunciato nelle righe precedenti. Il dato più interessante che ne emerge, infatti, è l’assoluta irrilevanza della componente tecnologica ai fini della definizione di cosa sia “stampa”. “Il semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum” – scrive la Cassazione – “non fa sì che il forum stesso, che è assimilabile ad un gruppo di discussione, possa essere qualificato come un prodotto editoriale, o come un giornale online, o come una testata giornalistica informatica.” Esiste dunque una differenza sostanziale, ritiene giustamente la sentenza, fra chi vuole fare “Informazione” professionale (e infatti la normativa di settore parla di “impresa editoriale”) e chi, invece, vuole semplicemente scrivere ciò che pensa, senza pretese di sostituirsi alla funzione riservata al giornalista. Un forum, continuano i giudici è infatti “una semplice area di discussione, dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero, rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui è soggetta la stampa (quale quello di indicazione di un direttore responsabile o di registrazione)”.
Attenzione, però, perché esiste anche un rovescio della medaglia. La stampa, dice la Costituzione, non può essere soggetta ad autorizzazioni e censure, né può essere sequestrata in modo indiscriminato. Si tratta di “privilegi” che la legge riserva alla stampa, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero. In altri termini, questo è il ragionamento dei giudici, l’informazione professionale è un bene pubblico, strumento di controllo democratico da parte dei cittadini per il tramite dei giornali(sti); è dunque corretto che un bene di questa importanza sia protetto dai “cattivi pensieri” di una ipotetica deriva autoritaria.
Viceversa, la pur importantissima libertà di manifestazione del pensiero garantita a tutti i cittadini dall’art. 21 della Costituzione, è pur sempre un fatto individuale e come tale soggetto alla normale applicazione della legge penale. Un ulteriore merito di questa sentenza, per concludere, è l’aver introdotto un criterio di flessibilità – o meglio, di neutralità tecnologica – nello stabilire se uno strumento di comunicazione possa essere o meno assoggettato alla legge sulla stampa.
Questo significa che non è il mezzo tecnologico in se stesso a trasformare chi lo usa, in giornalista. Al contrario, è il giornalista che trasforma un mezzo di comunicazione in strumento di informazione, cioè in Stampa (con la maiuscola).

di Andrea Monti – PC Professionale n. 218 maggio 2009


Fonte: ICTLEX

lunedì 30 gennaio 2012

Russia, la protesta dei pupazzetti



LA RIVOLTA

Mini manifestazione con gli omini Lego stroncata dalla polizia
 






MOSCA - L'idea più originale è venuta a quelli di Barnaul, tranquilla cittadina siberiana tra Novosibirsk e la Mongolia. Di fronte al rifiuto delle autorità di consentire una manifestazione di protesta contro i brogli alle elezioni di dicembre, hanno mandato in piazza dei pupazzetti. Omini del Lego, sorprese degli ovetti Kinder, personaggi del cartoon South Park, orsetti. Ognuno col suo bravo cartellino di protesta: «Un ladro dovrebbe andare in galera e non al Cremlino»; «Io sono a favore di elezioni oneste». Una bambolina issava un divieto di circolazione per il granchio. E per i blogger «granchio» è il soprannome di Vladimir Putin che quando cammina agita le braccia come due grandi chele.

È l'ultimo esempio di protesta silenziosa: dai secchielli blu sul tetto delle auto contro l'uso sfrenato delle sirene da parte dei potenti, ai picchetti formati da un solo manifestante che, così, non può essere accusato di adunata sediziosa. Ma le autorità non ne vogliono lasciar passare neanche una e la manifestazione dei pupazzetti è finita davanti ai giudici. Gli agenti hanno fotografato bambole, renne ed elfi, poi si sono messi a ricopiare tutti gli slogan.

Il ricorso alle manifestazioni silenziose è una vecchia tradizione che risale alle azioni dei dissidenti ai tempi dell'Urss. Ma ultimamente è rifiorito. Contro i secchielli blu le autorità le hanno provate tutte, ma senza successo. Mettere sul tetto della macchina un secchiello che imita i lampeggiatori blu delle auto ufficiali non può essere reato nemmeno in Russia. Così prendendo coraggio, gli automobilisti con i secchielli hanno pure iniziato a inscenare sfilate non autorizzate.

Recentemente i moscoviti hanno trovato anche una nuova forma di protesta. Spesso e volentieri il traffico viene fermato per consentire ai cortei ufficiali di passare senza perdere tempo. Gli autisti bloccati aspettano l'arrivo di Putin o del presidente Dmitrij Medvedev e si attaccano tutti assieme al clacson, facendo impazzire gli agenti dell'Fsb, successore del Kgb. L'ultima forma di protesta su quattro ruote si chiama «White ring action» e si svolgerà domani lungo l'anello di giardini che circonda il centro di Mosca. Lì sfilerà un corteo di auto che esibiranno tutte qualcosa di bianco: un riferimento ai nastri simbolo della contestazione anti Putin.

Avere il permesso per portare in piazza un certo numero di persone è un'impresa. Ma gli avvocati dell'opposizione hanno scoperto che per eventi che vedono protagonista una sola persona non occorre nulla: niente preavviso, niente autorizzazione. Così sono fioriti i mini picchetti di uomini sandwich che indossano cartelli con slogan politici contro quello che il blogger Aleksej Navalny ha ribattezzato «il partito dei ladri e dei truffatori». Le manifestazioni silenziose hanno preso piede anche in Bielorussia, dove tutto è vietato. La gente si dà appuntamento via web in una strada e poi all'improvviso inizia ad applaudire; e gli automobilisti organizzano improbabili ingorghi per le vie di Minsk.

Intanto la manifestazione di massa che l'opposizione ha in programma a Mosca per il 4 febbraio è stata finalmente autorizzata. Non sulla piazza del Maneggio, davanti al Cremlino («non disponibile»), ma da un'altra parte.

Fabrizio Dragosei


domenica 29 gennaio 2012

Un'eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l'Olocausto



Il libro "Un'eterna Treblinka" del vegan americano Charles Patterson paragona le teorie pseudoscientifiche naziste, che hanno portato alla morte milioni di ebrei nei campi di concentramento,  e le modalità scientifiche con cui milioni di animali d'allevamento (mucche, maiali, polli) sono sfruttati ogni giorno negli allevamenti. Per fornire all'uomo carne, latte, uova. Il paragone è scomodo ma inevitabile. Anche se sono necessari dei "distinguo".

Secondo la delirante ideologia nazista, le razze "inferiori" (ebrei, rom) ma anche i "diversi" (soggetti con basso livello d'intelligenza, malati mentali, gay) potevano e dovevano essere sterminati per dare vantaggio alla presunta razza "superiore" (ariani). Alla luce delle conoscenze genetiche attuali, le teorie sulle differenze tra razze umane sostenute dai nazisti sono risibili. Del resto Hitler non era un intellettuale ma un ex imbianchino, e la maggior parte dei nazisti erano di origine piccolo-borghese.

Oggi sappiamo che non ha senso, da un punto di vista scientifico, parlare di superiorità/inferiorità tra razze umane. Ma se esistessero razze non umane, geneticamente inferiori agli uomini (ad esempio con un quoziente intellettivo estremamente limitato), sarebbe giusto sfruttarle fino alla morte in strutture simili a campi di concentramento? Molti benpensanti direbbero, scandalizzati, che questo non sarebbe giusto. Eppure queste razze inferiori, non umane, esistono, e gli uomini le sfruttano da secoli. Sono gli animali d'allevamento. E gli allevamenti moderni sono simili, in modo impressionante, a lager nazisti. Questa è la tesi "scomoda" sostenuta da Charles Patterson in "Un'eterna Treblinka" .

E' giusto mangiare la carne di un animale che è sempre vissuto in una gabbia, che non ha mai visto la luce del sole? E' giusto ignorare la sofferenza di un animale solo perchè è molto meno intelligente di un uomo? "Un'eterna Treblinka" è un libro scomodo, che molti "carnivori" non vorrebbero leggere. Per molti vegetariani e vegani, al contrario, questo libro è un'icona.

C'è differenza tra la sofferenza di un uomo e quella di un animale, seppure meno intelligente? Tutti, istintivamente, sappiamo di no. Molti preferiscono far finta di nulla e mangiare carne, latte, uova. Anche se le alternative vegane (diete a base di proteine vegetali, come seitan e tofu, e vegetali integrali altamente proteici, come il kamut) sono sempre più diffuse.

Il libro di Charles Patterson, ormai quasi introvabile in italiano, può essere acquistato, in lingua inglese e in formato e-book, su questo sito.



Fukushima, sfida le radiazioni e si prende cura degli animali abbandonati

 

Appunti da: Corriere della Sera

 

 

All'interno del raggio di evacuazione di 20 km dalla centrale


Naoto Matsumura, risultato «completamente contaminato», ha trasformato la sua casa in un centro di accoglienza

MILANO – «Gli animali di Fukushima abbandonati e lasciati morire»: questo è il titolo di un reportage della Cnnche parla di una categoria trascurata dagli organi d'informazione nel parlare del disastro nucleare giapponese: gli animali. Ma qualcuno ha pensato a queste povere vite. E per amor loro ha deciso di rimanere a Tomioka. E di non abbandonarli al loro destino. Il piano di evacuazione ordinato dal governo giapponese parla chiaro: tutti coloro che abitano nel raggio di venti chilometri dai reattori della centrale danneggiata dall'accoppiata killer terremoto/tsunami dell'11 marzo scorso vanno immediatamente allontanati. Ma c’è un uomo di nome Naoto Matsumura, agricoltore da cinque generazioni, che decide di non stare alle regole. 

RIBELLE - Naoto inizia la sua disobbedienza proprio il giorno dopo il terremoto. Mentre i 78 mila residenti nell'area a maggiore rischio di contaminazione radioattiva lasciano le loro case, il cinquantaduenne ribelle di Fukushima organizza la sua resistenza nel nome dei suoi amati animali, poiché il piano approntato dalle autorità non prevede alcuna misura per evacuarli, ma Naoto non se la sente di ignorarli. Oggi l’unico residente della zona è dunque anche l’unica fonte di nutrimento per un gran numero di animali randagi. 

CARCASSE OVUNQUE - A quasi un anno di distanza dal disastro nucleare, l’area di venti chilometri di raggio che si estende attorno a Fukushima è un cimitero a cielo aperto. Le carcasse di cani, gatti ma anche di mucche e maiali sono sparse un po’ ovunque. Numerose associazioni animaliste hanno fatto pressione sul governo giapponese per tentare di salvare anche i gli animali, ma le autorità si sono rifiutate, ritenendo l’operazione di salvataggio troppo rischiosa per la salute degli incaricati. Ciononostante nel dicembre scorso un gruppo di animalisti è entrato nell’area evacuata e ha portato via circa 250 cani e un centinaio di gatti, riuscendo in seguito a rintracciare l’80 per cento dei proprietari. 

«IO RESTO QUI» - «Sono pieno di rabbia», sbotta Matsumura, intervistato dalla Cnn. «Ed è questa la ragione per la quale sono ancora qui. Mi rifiuto di andarmene portando con me questa rabbia e questo dolore. Piango ogni volta che guardo la città nella quale sono nato. Il governo e la gente di Tokyo non sanno quello che sta succedendo qui». Da quando ha deciso di rimanere per dar da mangiare ai randagi, Naoto esce dall’area solo per procurarsi cibo per i suoi amici a quattro zampe. Già dopo poco tempo dall’evacuazione la maggior parte delle mucche era morta. Vermi e mosche ricoprivano le carcasse e l’odore era insopportabile. 

UNA STORIA TRISTE - Ma la scena peggiore ricordata da Matsumura riguarda una mucca con il suo vitellino che l’agricoltore ritrovò in pessime condizioni nella fattoria di un vicino: «La mucca era pelle e ossa e il suo piccolo piangeva e cercava ostinatamente di attaccarsi alle mammelle della madre. Ma lei, forse temendo che se avesse nutrito il cucciolo sarebbe morta, lo allontanava scalciando. Dopo molti rifiuti il vitellino si rintanò in un angolo della stalla e prese a succhiare della paglia, come se fossero le mammelle di sua madre». Il giorno dopo Naoto tornò alla fattoria e trovò entrambi gli animali morti. È stato dopo avere assistito a decine di scene come questa che il signor Matsumura ha iniziato a concedere interviste ai corrispondenti esteri di varie testate sottolineando come i media giapponesi stiano ignorando un aspetto drammatico delle conseguenze dell’incidente di Fukushima. 

CONTAMINATO - Naoto Matsumura vive in una città fantasma, senza elettricità e beve l’acqua estratta da un pozzo vicino alla sua casa. Dopo gli esami clinici per misurare i livelli di contaminazione il suo organismo è risultato «completamente contaminato». Ma nonostante la diagnosi l’unico cittadino di Tomioka non si scoraggia e dichiara di volere seguire da vicino le opere di bonifica commissionate dal governo. «Dobbiamo decontaminare quest’area o questa città morirà. Io rimarrò qui per essere sicuro che questo venga fatto e perché voglio morire dove sono nato».
Emanuela Di Pasqua
28 gennaio 2012 | 16:41

Appunti da: Corriere della Sera

Cucchi, perizia choc della famiglia: «E' morto dopo il pestaggio»


Appunti da: Il Messaggero




di Luca Lippera


ROMA - Altro che decesso naturale, altro che lesioni trascurabili, altro che destino. La fine di Stefano Cucchi è stata determinata dai colpi che ricevette al viso e alla schiena e dalla successiva negligenza dei medici che lo ebbero in cura. I periti della famiglia, alla ventiquattresima udienza del processo, contestano senza peli sulla lingua le conclusioni dei consulenti della Procura. Cucchi non morì perché il caso a volte si accanisce ma «per una serie incontestabile di eventi».

«Finalmente ha detto in una pausa del dibattimento Ilaria Cucchi, 38 anni, sorella della vittima arriva una spiegazione scientifica e ascoltiamo la verità». Per ore ieri Rebibbia, Aula A quattro schermi hanno rilanciato senza sosta le foto di Cucchi al momento dell’arresto, Cucchi dopo la morte, Cucchi sul tavolo dell’autopsia, prima, durante e dopo. «Il giorno prima dell’arresto ha ricordato la donna mio fratello era in palestra sul tapis-roulant. Poi è successo quello che è successo».

Cucchi morì nell’ottobre del 2009 al reparto carcerario dell’ospedale «Pertini» sei giorni dopo un fermo per droga. Gli imputati principali del processo sono i medici che lo seguirono e tre agenti della Polizia Penitenziaria. I primi sono accusati di aver abbandonato il paziente senza cure adeguate, gli altri di averlo picchiato in una cella del Tribunale. I consulenti del pubblico ministero, tutti docenti dell’Istituto di Medicina Legale della «Sapienza», nelle ultime udienze hanno ripetuto per ore un mantra: le lesioni sul corpo di Cucchi non erano assolutamente fatali e il detenuto morì per negligenza dei sanitari che trascurano le condizioni di un paziente debilitato da anni di tossicodipendenza.

Vittorio Fineschi, 52 anni, docente di Medicina Legale a Foggia, capo del team ingaggiato dai Cucchi, ieri ha detto chiaro e tondo di pensarla in modo sideralmente opposto. Fabio Anselmo, legale della famiglia, ha chiesto che «a questo punto l’imputazione contro gli agenti sia trasformata in omicidio» (ora è lesioni, ndr). «Al di là delle ipotesi ha detto Fineschi ci sono i fatti. Medici diversi constatarono le ecchimosi sul volto e alla schiena. Una radiografia ha certificato una frattura a una vertebra lombare e l’autopsia ha confermato tutto questo. Sono elementi incontestabili da cui nasce una convinzione: le lesioni subite da Cucchi sono intimamente legate al decesso».

Il pestaggio ricostruito dall’accusa sarebbe dunque l’innesco della tragedia. «Con il passare delle ore ha proseguito Fineschi la lesione alla vertebra ha alterato il funzionamento della vescica. In ospedale non ci si rese conto della situazione. Il catetere messo al detenuto finì fuori sede, le urine si accumularono». L’autopsia ha accertato un ristagno: un litro e mezzo. «Questa condizione ha sostenuto lo specialista ha provocato un problema di circolo sanguigno e la morte». Causa ultima: «Edema polmonare acuto in un soggetto politraumatizzato in decubito coatto con quadro di insufficienza cardiaca».

Dietro i termini un po’ professorali si nasconde la totale divergenza di vedute tra parte civile e Procura. I periti non concordano su nulla. Quelli del pm ad esempio pensano che la frattura alla vertebra risalisse a molto tempo fa perché «c’era callo osseo» e perché «se ne parla in una vecchia cartella clinica». I consulenti dei Cucchi la ritengono così recente da aver causato i danni alla vescica e tutto il resto. Per i giudici non sarà un gioco districarsi in un tale labirinto.

Prossima udienza il 9 febbraio. Di certo quella di ieri ha fornito frecce all’arco dei Cucchi. «Non so perché i consulenti dell’accusa abbiano certe posizioni ha detto la sorella di Stefano Non voglio pensare né a disegni né ad altro. Ma i nostri periti stanno fornendo spiegazioni scientifiche che gli altri non ci hanno dato». Sguardo luminoso, volto sollevato.



Sabato 28 Gennaio 2012 - 09:35



Appunti da: Il Messaggero

Apple iPad: prodotti d'avanguardia, fabbriche da terzo mondo

Il New York Times ha pubblicato di recente un articolo sui drammatici costi umani che si nascondono dietro la sfavillante tecnologia degli iPad ed iPhone dell'Apple. Nella FoxConn, che produce computers per la Apple e per altre majors dell'informatica, campeggia un cartello dallo stile vagamente dantesco. Dice: «Lavorate duramente oggi o duramente trovatevi un altro lavoro domani». Il New York Times racconta di un'esplosione verificatasi alla FoxConn nel maggio 2011, nel settore dove si lavoravano i "gusci" in alluminio degli iPad: quattro morti e più di 20 feriti. La causa? Semplice: gli aspiratori per la polvere in alluminio delle lavorazioni dei gusci degli iPad non funzionavano bene, gli operai lavoravano letteralmente coperti dalla polvere di alluminio, e in certe condizioni questa polvere può esplodere. Una lavorazione non particolarmente sofisticata (gusci per computer in alluminio) svolta in condizioni da "terzo mondo", inimmaginabili in Italia.

Apple: prodotti da fantascienza, condizioni di lavoro da "terzo mondo". 

 

Appunti da: Corriere della Sera



Apple, la Cina e i costi umani per iPad e iPhone

Incidenti mortali, suicidi e turni di 24 ore sette giorni su sette nella fabbriche dove vengono prodotti tablet e telefono

Paolo Salom


 


PECHINO - Semplici eppure geniali. Oggetti di cui non si può più fare a meno: iPad, iPod, iPhone, per citare soltanto i più noti, i più apprezzati, i più rincorsi. Oggetti dalle linee pulite entrati nell’immaginario collettivo. Tecnologia cult che contribuisce a modificare il nostro stile di vita. Ma anche, come un moderno, perverso contrappasso, lo stile di vita chi li produce in conto terzi, ovvero milioni di lavoratori cinesi costretti a rispettare turni estenuanti in condizioni che nessuno, in Occidente, potrebbe nemmeno figurarsi, tanto meno accettare. È il New York Times a far cadere un velo che, per la verità, appare davvero sottile, su una realtà al limite dell’incredibile con una lunga e dettagliata inchiesta cui, finora, la Apple, principale committente di prodotti che ne hanno decretato l’inarrivabile successo degli ultimi dieci anni (utili a 13 miliardi di dollari), non ha voluto replicare ufficialmente.

L'INCHIESTA- Questa realtà parla di incidenti, spesso mortali, nelle differenti aziende che lavorano per il gigante americano dell’elettronica stilosa. Con un’attenzione particolare alla Foxconn, se non altro perché è la più grande fabbrica della Repubblica Popolare (un milione e 200 mila tra operai e addetti) che, oltre a quelli della Apple, assembla i prodotti di industrie come Amazon, Dell, Hewlett-Packard, Nintendo, Nokia e Samsung. La Foxconn, entrata nelle cronache per una «epidemia» di suicidi tra i suoi dipendenti, ha il suo centro nevralgico a Chengdu, metropoli di 12 milioni di abitanti nella provincia del Sichuan, ma ha fabbriche ovunque in Cina e, scrive il New York Times, dai suoi capannoni esce il 40% di tutti i prodotti di elettronica venduti nel mondo con svariati marchi.

TURNI MASSACRANTI- Ma i «gioielli» restano ovviamente i colorati oggetti partoriti dal genio del compianto Steve Jobs. Che probabilmente ignorava le condizioni in cui venivano realizzati se è vero che, in passato, aveva lodato la struttura produttiva cinese: «Le loro fabbriche hanno mense, cinema, piscine», aveva detto durante un convegno. Vero, verissimo. Soltanto che il prezzo pagato dai lavoratori è al di là di ogni immaginazione (occidentale). Basta leggere il cartello che mette in guardia gli operai, come una riedizione del dantesco «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate». Dice: «Lavorate duramente oggi o duramente trovatevi un altro lavoro domani». Poi il New York Times elenca con precisione come lavorano i dipendenti: turni sulle 24 ore, sei giorni su sette, 12 ore per turno, senza potersi mai sedere, punizioni per i ritardatari, costretti a scrivere umilianti lettere di scuse, dormitori affollati all’inverosimile.

LA DIFESA- La Foxconn si difende negando di «maltrattare gli operai» e anzi affermando di «rispettare le leggi della Repubblica Popolare». D’altro canto, la Apple ha varato un codice di condotta aziendale che vieta di servirsi di fornitori che impongano condizioni disumane ai dipendenti. Evidentemente, fa capire il New York Times, non sempre queste condizioni vengono verificate puntualmente. Altrimenti la Foxconn non sarebbe tra i fornitori della Casa di Cupertino. Quando il britannico Mail on Sunday ha pubblicato un'inchiesta sui metodi impiegati in un impianto della Foxconn a Shenzhen (turni infiniti e persino punizioni fisiche, come l’obbligo di fare flessioni in stile caserma), alcuni dirigenti della Apple si sono detti «scioccati: non sapevamo che cosa succedesse davvero in Cina, tutto questo deve essere cambiato».

«APPLE NON SI PREOCCUPA» - Nella realtà, poco può essere modificato seguendo la logica del profitto imposta dall’industria fondata da Jobs. Perché i margini per il fornitore sono esigui e possono aumentare soltanto riducendo i costi di produzione. In Cina questo viene fatto a spese dei lavoratori, costretti a turni inaccettabili, a utilizzare prodotti chimici pericolosi, a subire soprusi per lavorare di più e meglio. «Una volta che la Apple ha scelto un fornitore - spiega al New York Times un anonimo (ex) manager - difficilmente si preoccupa se il codice di condotta è rispettato come garantito prima di firmare il contratto». Essenziale, prima di tutto, è che iPod e iPad siano a regola d’arte. O che gli iPhone piacciano al pubblico. Che nulla sa del sudore e della sofferenza nascosti nei circuiti interni.

Paolo Salom
 

Appunti da:

Corriere della Sera

New York Times


Vuoi sapere cos'è la società classista? Cerca di andare in bagno a Davos

Appunti da: Corriere della Sera

 

CURIOSITA' AL WORLD ECONOMIC FORUM

Una sola toilette per migliaia di persone.

Poi ci sono gli eletti: grandi spazi e hostess che fanno la guardia

 

FEDERICO FUBINI


Il bagno di Davos (Fubini)


DAVOS (Svizzera) - Il partecipante medio del World Economic Forum a Davos vive una condizione esistenziale per lui, o lei, nuova: non ha libero accesso a un bagno. Il solo nel quale può recarsi è spesso occupato, piccolo e di un livello di igiene quantomeno equivoco. È una questione di gerarchia, che si declina a partire dal numero di mattonelle della toilette in cui ciascuno è autorizzato a introdursi. Per il Davos Man, l’homo davosiano medio il cui reddito si misura spesso in milioni, la cui casa ha di solito ha un bagno per ogni stanza, il cui ufficio è monumentale, è un’esperienza in più su cui riflettere. Il Centro Congressi del World Economic Forum ospita infatti migliaia di delegati, ma per la gran parte di loro un’unica ritirata è palesemente accessibile. Le altre non lo sono, come fossero una materia prima rara e per questo tanto più preziosa.
RIFLESSIONE - È qui che il Davos Man, accuratamente senza parlarne ad altri, trova per sé materia di riflessione. Il grande Centro Congressi dispone infatti di altri w.c., ma essi non sono aperti all’uomo medio di Davos. L’elaborata piramide umana che domina l’evento stende la sua ombra anche su questo aspetto fondamentale della vita in società. A Davos ci sono i servizi per lo staff, minuscoli, quelli per il delegato medio, e infine i bei bagni riservati ai soli portatori di ranghi più elevati. Chi ha un normale badge bianco, al pari dell’umanità un po’ inferiore in badge arancione (quella che non entra gran parte dei dibattiti), si accontenta dell’angusto gabinetto per tutti.

UMORISMO CASUALE - Poi però al piano superiore del Centro Congressi c’è un luogo guardato con cura da una hostess, dominato da una grande scritta argentata: Strategic Partners. È l’area riservata alle aziende che pagano una somma sostanziosa al World Economic Forum, di solito mezzo milione di dollari l’anno. Sono un centinaio di nomi celebri come Goldman Sachs, Bank of America, Bill and Melinda Gates Foundation, Google, Saudi Basic Industries. Chi appartiene a questi marchi, ha libero accesso per i propri momenti di relax a un luogo grande, pulito e nella gran parte del tempo disabitato. Forse è solo una metafora di come l’umanità tenda sempre a organizzarsi in strutture gerarchiche in tutte le sue attività principali. Di certo conforterà il frequentatore medio dell’altro più misero bagno la scritta sulla porta per arrivarci: Follow the path to higher learning, segui il cammino verso un apprendimento più elevato. L’umorismo, trattandosi di Davos, va considerato senz’altro puramente casuale.

28 gennaio 2012

venerdì 27 gennaio 2012

mercoledì 25 gennaio 2012

Hysteria: una commedia sulla storia del vibratore elettrico







Il vibratore elettrico è stato inventato da un rispettabile medico americano intorno al 1880, prima che si scoprisse che cos'era esattamente l'orgasmo femminile. Infatti questa geniale invenzione era stata pensata per  un altro  scopo: alleviare i sintomi dell'isteria, che all'epoca era uno dei disturbi femminili più di moda.


Hysteria, una commedia della regista americana Tanya Wexler, aiuta a capire cosa c'era dietro quest'oggetto semplice ma anche rivoluzionario. Tra gli interpreti del film ci sono Rupert Everett e la bravissima Maggie Gyllenhaal (Secretary).



L'incredibile storia del vibratore è raccontata in un libro (ora fuori catalogo) della studiosa inglese Rachel Maines: "Tecnologia dell'orgasmo - Isteria, vibratori e soddisfazione sessuale femminile" (Marsilio, 2001).





Riferimenti:

Fan Page

The Guardian

Musica Vaginale: Amy G. e il suo incredibile talento con il kazoo ...





(Amy G.: Kazochee)

 
Per la cronaca, il motivo che l'insuperabile Amy G. suona usando in contemporanea tre kazoo diversi (con tre diverse parti del corpo) é "America the Beautiful". 





Per approfondire: il sito web di Amy G.


Una legge per l'oblio. Così ci si cancella dal web

 

Appunti da: Repubblica

 

Ogni giorno 4 milioni di dati sensibili finiscono in rete mettendo a rischio la nostra privacy. A strasburgo due provvedimenti del Parlamento europeo provano a tutelarci.




di RICCARDO LUNA

NON TI scorderò mai. Non è una promessa. È una minaccia. E non è nuovissima. Era il 1998 quando il blogger Joseph Daniel Lasica scrisse un post storico su Salon, una delle bibbie della cultura digitale: "Internet non dimentica niente", era il titolo. Aveva capito tutto, Lasica, e non aveva ancora visto il web 2.0, dove gli utenti della rete i contenuti li creano in continuazione aggiornando i propri "status", postando foto e video, twittando freneticamente. Parliamo di una quantità di dati personali impressionante che mettiamo in pubblico quasi senza pensarci: centomila tweet al minuto, un milione di commenti su Facebook ogni due minuti. Che teoricamente non spariranno mai. "Dio perdona e dimentica, la rete no", è andata dicendo il commissario europeo Viviane Reding in questi due anni in cui, assieme ai garanti della privacy europei, ha preparato un provvedimento monumentale.

Provvedimento che punta a cambiare per sempre quello che intendiamo per protezione dei dati personali e che prova a fare i conti una volta per tutte con il diritto all'oblio al tempo del web. Ovvero: abbiamo diritto a far sparire dalla rete le cose che ci riguardano, quelle che abbiamo postato noi, magari tanto tempo fa; ma anche quelle postate da altri, ma che ci creano imbarazzo? La risposta a questo interrogativo è in due complessi di norme e principi che oggi verranno presentati al Parlamento europeo ma che la Reding ha anticipato a "Digital Life Design",

una grande conferenza di cultura digitale a Monaco dove erano presenti i giganti del web, da Facebook a Google che sono in ansiosa attesa di conoscere la nuova disciplina che li coinvolge direttamente. E che potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui usiamo Internet.

Vediamo di cosa si tratta. Il primo provvedimento è una direttiva, vuol dire che dopo l'approvazione andrà quindi recepita da ciascun paese, e riguarda la protezione dei dati dei cittadini per provvedimenti giudiziari, misure di sicurezza e polizia: "Prevede obblighi di comunicazione del trattamento dei dati molto tutelanti per chi è stato oggetto di attenzioni da parte delle autorità" racconta il Garante della privacy Francesco Pizzetti che ha svolto un ruolo centrale nel gruppo di lavoro europeo.

Il secondo provvedimento è un regolamento e riguarda tutti gli altri casi, in particolare Internet. Secondo Pizzetti, "aver scelto lo strumento del regolamento vuol dire che quando sarà approvato avremo una normativa immediatamente applicabile in Europa assicurando identica protezione dei dati in tutta l'Unione". Si tratta di una semplificazione che consentirà a chi vuole operare in Europa di avere un quadro di riferimento chiaro, e che al tempo stesso impedirà di scegliersi il paese europeo con la legislazione più morbida per aggirare i divieti. Questa semplificazione, secondo la Reding, porterà a regime a risparmi di oltre due miliardi di euro l'anno.

Le cose più notevoli del regolamento, secondo Pizzetti, sono: 1) non toccherà più al cittadino dimostrare illiceità dell'uso dei propri dati ma al titolare dei dati dimostrare la liceità; 2) il consenso all'utilizzo dei propri dati dovrà essere esplicito; 3) l'eventuale perdita dei dati per un attacco informatico dovrà essere comunicato subito (24 ore, secondo la Reding); 4) la pubblica amministrazione e le imprese con più di 50 dipendenti dovranno dotarsi di un "data protection officer" (nota: nuova professione in arrivo); 5) se viene fatto un uso illecito dei dati di qualcuno, il responsabile ne risponderà comunque; 6) ogni nuovo strumento tecnologico ma anche semplice applicazione dovrà valutare l'impatto che il suo utilizzo avrà sulla privacy (Pia, privacy impact assessment); 7) dovrà essere possibile avere la "data portability": ovvero così come possiamo portarci dietro il numero di telefono cambiando gestore, dobbiamo poterci portare gli amici di Facebook su un altro social network (bel principio ma di impervia attuazione).

Si tratta di una rivoluzione? Si tratta di norme importanti, che prevedono tra l'altro sanzioni notevoli: fino all'un per cento del fatturato, che nei casi di Google e Facebook sono somme gigantesche (per questo l'originaria previsione del cinque per cento è stata attenuata). Epperò va detto che su molte cose il web ha giocato d'anticipo. Facebook per esempio, che in passato ha avuto furiose polemiche per un atteggiamento molto disinvolto sui dati personali, oggi consente all'utente di verificare tutti i dati che ciascuno ha caricato; di modificare facilmente le previsioni di privacy e anche di cancellare il proprio profilo con due clic (dopo il primo appare una schermata struggente dove ti avvisano che i tuoi amici, evidenziati con nomi e foto, sentiranno la tua mancanza...). Quanto a Google, che pure è stato coinvolto in polemiche per il fatto di tenere traccia di tutte il nostre ricerche e navigazioni in rete, oggi mette a disposizione dell'utente un pannello per cancellare i propri dati e una modalità di navigazione completamente anonima.
Resta il problema della cancellazione delle cose che ci riguardano scritte o postate da altri. Per esempio una pagina di Wikipedia. Qualche anno fa fece scalpore il caso di due tedeschi, condannati per l'omicidio di un noto attore, che avevano chiesto che il loro nome fosse rimosso dalla pagina della vittima visto che avevano scontato la pena. "Questo argomento è esploso quando i giornali hanno messo online i loro archivi" racconta Pizzetti che se ne è occupato a lungo. "Allora grazie ai motori di ricerca divenne facilissimo per tutti andare a scavare nel passato di chiunque e in molti casi questo creò dei veri traumi familiari, per esempio quando il nipote scoprì del fallimento del nonno o dello stupro della nonna". Non si tratta di casi limite, secondo Pizzetti, che provò a individuare una soluzione consigliando i giornali di lasciare i contenuti in rete ma di renderli invisibili per i motori di ricerca. Ora intervengono le norme della Reding che sul punto ha chiarito: "Gli archivi dei giornali sono una eccezione, il diritto a essere dimenticati non può significare il diritto a cancellare la storia".

Questa eccezione, secondo alcuni, potrebbe non bastare, visto che oggi molta informazione non sta nei giornali ufficiali, ma nei blog e nei siti di citizen journalism. Il rischio di una strada simile sarebbe grosso. Spiega Guido Scorza, uno dei più noti giuristi della rete: "La disciplina europea unica proposta dalla Reding è apprezzabilissima, ma sul diritto all'oblio non ci siamo. Se consentiamo a chiunque di pretendere la rimozione di un contenuto sgradito che lo riguarda, tra cento anni quando guarderanno a questa epoca attraverso Internet sembreremo tutti bravi e buoni. Le storie di corrotti e delinquenti saranno sparite".

L'1 febbraio i due provvedimenti iniziano il loro cammino parlamentare che si annuncia problematico. Non solo per le reazioni di attesa diffidente del mondo del web: Google e Yahoo! si sono astenute dal commentare, da Microsoft filtra il timore che si tratti di norme troppo restrittive, mentre Facebook ha scelto la strada dell'ironia lodando l'auspicio della Reding sulla creazione di nuovi posti di lavoro e chiedendosi in che modo verranno davvero tutelati i diritti degli utenti di Internet.

In realtà qualche dubbio lo avrebbero gli stessi garanti della privacy europei, che pure dalle norme sono rafforzati enormemente (è previsto l'obbligo per i parlamenti di sentirli per ogni legge che riguardi i dati personali). Dice per esempio Pizzetti: "Siamo in presenza di una costruzione giuridica notevole, una normazione minuta di quasi cento articoli, ma come cittadino del mondo mi chiedo se questa renderà più facile o no la tutela della privacy su scala globale di fronte alle altre innovazioni che arriveranno sulla scena".


(25 gennaio 2012)

Appunti da: Repubblica

 

sabato 21 gennaio 2012

Cronache dal Sottosuolo. Io, Roma e le puttane




(Estratto da: Confessioni di un puttaniere)


Lo so, è più forte di me, ma a volte non so resistere. Dopo aver preso una "pasticchetta" per evitare brutte figure (ormai ho superato i cinquanta, e le mie performance a livello andrologico non sono più quelle di una volta) mi avventuro nel buio della Salaria, squarciato solo dalle luci livide dei lampioni stradali, in cerca di una ragazza.

Stasera vado in cerca di ragazze che conosco, ragazze delle quali mi fido. Stasera non voglio nessuna "avventura", voglio solo ripercorrere sensazioni già vissute. Mi fermo in uno dei soliti posti, al margine della strada. C'è una ragazza alta, bruna, che mi sembra di conoscere. Quando mi avvicino capisco che non è quella che cercavo, ma ormai è troppo tardi, preferisco caricarla in auto dopo una breve trattativa.

M. è molto infreddolita, dopo che siamo ripartiti mette al massimo il riscaldamento dell'auto e resta con le mani sulle bocchette dell'aria. In questi giorni fa un freddo polare. Stando in auto non ci si rende conto di quanto queste ragazze soffrano il freddo restando seminude per ore in mezzo alla strada.

M. è dell'est, ed è arrivata da poco in Italia. Prima ha lavorato in un altro paese, dove viveva a due passi dal mare. Passare da una casa a due passi dal mare al freddo della Salaria mi sembra una vera condanna. M. continua a tremare nonostante il riscaldamento dell'auto sia al massimo. Io sono il suo primo cliente di stasera.

Mentre si spoglia, M. mi parla del posto dove viveva prima, a due passi dal mare. M. è davvero una bella ragazza, alta, nè troppo in carne nè troppo magra. Ha poco più di vent'anni. Impiega molto tempo a spogliarsi, perchè è vestita a strati per ripararsi dal freddo. E intanto mi racconta di sè, della sua vita precedente, del fatto che rimpiange di essere venuta in Italia. Quando si toglie il reggiseno esibisce un seno perfetto, nè troppo grande nè troppo piccolo. Perfetto. E poi i capezzoli sono duri, eretti sotto le mie dita e sotto le mie labbra. Glielo dico mentre li accarezzo e li succhio. Dev'essere il freddo. A tutte le donne piace sentirsi dire che hanno un bel seno, anche se lo espongono solo per lavoro. M. mi piace sempre di più. Secondo me dentro è un pò bambina, come molte donne.

(...)


Quando abbiamo finito, M. mi chiede di accompagnarla ad un distributore automatico per acquistare dei profilattici. Mentre guido, M. mi racconta della sua vita precedente, in un paese caldo, in una casa a due passi dal mare. Mi racconta di come ha pianto quando è arrivata nel freddo dell'Italia. Io sono sempre più trasognato, guido quasi a passo d'uomo. Quando arriviamo al distributore di profilattici, la guardo scendere dall'auto con il suo passo sicuro e felpato. Mi piace sempre di più. E' alta solo qualche centimetro in meno di me: sarebbe perfetta per la mia statura. Mi piace come si muove. Fuori è una pantera, dentro una bambina. Comincio a sognare una vita con lei in una casa a due passi dal mare. Impossibile: ho cinquan'anni e sono già pieno di acciacchi. Nessuna mi sopporterebbe. Comincio a sognare la vita di M. in una casa comprata per lei a due passi dal mare. M. sarebbe un'amante perfetta. Comincio a sognare. Se fossi ricco, se non avessi avessi il conto in rosso ... E' ora di tornare alla realtà. Anche se non è mai detto, ci sono stati dei casi simili precedenti. Ad esempio in due film di Salvatores: Puerto Escondido e Mediterraneo.

M. approfitta della sosta a un semaforo per sollevare leggermente il suo giubbotto sulla schiena e mostrarmi il suo tatuaggio. Non ho tempo di vedere bene il tatuaggio, ma lei è bellissima. La accarezzo sulla pelle morbida, vellutata. Mi rendo conto del fatto che nella fretta ho completamente trascurato il suo lato B. Le dico che la prossima volta dovrò assolutamente rimediare. M. mi guarda, sorride. E' una bambina. Io non vorrei mai staccare le mani dalla sua pelle.

Riaccompagno M. sui margini della Salaria, la bacio e l'abbraccio. Penso che non ci rivedremo più, ma incontrarti è stato molto bello.

Mentre ripasso sulla Salaria per tornare a casa, vedo un'auto con il lampeggiante sul tetto che si infila in una via secondaria. Probabilmente sono i Vigili Urbani che Alemanno manda in giro, su delle auto civetta, per multare di 200 euro prostitute e clienti. Non credo che questi soldi possano servire a combattere la prostituzione, ma al Comune di Roma fanno sicuramente molto comodo.

Mentre mi allontano vedo che la Salaria è piena di ragazze. Nella luce livida delle lampade al sodio, ne vedo tre che agitano il sedere sul bordo della strada. Una ha i jeans, è molto giovane, e sculetta in modo un pò meccanico. Ha lo sguardo vuoto, si avvicina troppo alla strada. Non mi piace molto, ma la Salaria non è posto per lei. Ci sarà posto per tutti in quella casetta in riva al mare?


(Roma, via Salaria, gennaio 2012)

Mauthausen la "musica" di noi maiali


Appunti da: La Stampa
18/01/2012


Dal libro-testimonianza di Gianfranco Maris: una scodella di zuppa ogni due deportati, ricordo come fosse ora il rumore di quelle sorsate

GIANFRANCO MARIS
Gianfranco Maris (nella foto a sinistra), noto avvocato penalista, senatore del Pci dal 1963 al 1972, membro del Csm dal ’72 al ’76, attuale presidente dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) ha oggi 91 anni. Militante nelle file del partito comunista clandestino e poi della Resistenza milanese, ne aveva 23 quando da Fossoli, dove la Repubblica Sociale Italiana aveva allestito un campo di prigionia, venne trasferito in Austria, a Mauthausen. Ora ha affidato i suoi ricordi di quel periodo a un libro scritto con l’inviato-editorialista della Stampa Michele Brambilla, Per ogni pidocchio cinque bastonate (lo stesso titolo dell’intervista pubblicata un anno fa su queste colonne, per il Giorno della Memoria), edito da Mondadori (pp. 151, 17,50). Ne anticipiamo uno stralcio.

E’ la notte del 7 agosto 1944. Il treno si ferma davanti a una baracca illuminata con una luce gialla. È la stazione di Mauthausen. […] Facciamo così la nostra conoscenza con una nuova figura: i kapò. Sono loro, schiavi delle SS e feroci custodi del campo, che ci circondano brutalmente e ci ordinano di ammucchiare a terra i nostri abiti. Ci dicono che dobbiamo lavarci e che ci debbono tagliare i capelli: poi ritorneremo in possesso dei nostri indumenti, che ora dobbiamo raccogliere in ordine e posare ai nostri piedi, restando tutti completamente nudi. […] Torniamo in cortile e non troviamo più nulla dei nostri abiti, che ci avevano ordinato di piegare e di lasciare per terra. I kapò ci inquadrano con violenza, il cammino ora è celere, non c’è più nessuno che possa ritardare la marcia. Velocemente, con furore, ci portano dall’altra parte del campo, oltre un muro. Ci viene detto che stiamo per raggiungere la baracca di quarantena, dove impareremo a essere prigionieri.

Capiamo ben presto che i nostri amici non hanno passato la selezione degli idonei al lavoro e sono stati avviati all’eliminazione. Tutti noi altri veniamo portati nel reparto quarantena di Mauthausen. Siamo nudi, in una baracca completamente vuota, senza letti a castello. Di notte dormiamo sdraiandoci sul pavimento uno accanto all’altro, come sardine in scatola.

Non abbiamo più nulla, non ci è rimasto neppure lo spazzolino per i denti e sicuramente non abbiamo neppure un cucchiaio. Perché mi viene in mente il cucchiaio? Nella tarda mattinata ci viene distribuita una zuppa in una gamella per ogni due deportati: per cui la zuppa, un brodo di barbabietola da foraggio, deve essere bevuto a sorsi alternati. Ricordo come fosse adesso che in quel momento una cosa soltanto dominava su tutto: il rumore. Il rumore di queste sorsate, che sembravano la musica di tanti maiali gettati contemporaneamente nel truogolo.

Perché ci trattano cosi? Non ci sono nel campo gamelle sufficienti per somministrare a ciascuno la parte che gli compete di quella brodaglia? E non ci sono cucchiai di cui i prigionieri possano usufruire nonostante la loro spregevole condizione di nemici del Terzo Reich?
Finito il «pranzo», a ciascuno di noi viene distribuito un berretto. Cosi non siamo più tutti nudi: insomma siamo sì nudi, ma con un berretto. Ci chiamano subito fuori dalla baracca, ci inquadrano. Arriva un kapò e comincia a impartirci il suo nuovo ordine: «Mützen ab! Mützen auf!» (Berretto giù! Berretto su!). Va avanti così per ore. «Mützen ab! Mützen auf!» E noi per ore, nudi in un cortile, a tirarci su e giù il berretto. Poi entriamo nella baracca e passiamo la notte sdraiati uno accanto all’altro sul pavimento, nudi, senza nessuna coperta o riparo. La mattina dopo, di nuovo nudi in cortile e altre ore di "Mützen ab! Mützen auf!". Poi la broda in una sola gamella per due persone e la "musica" del truogolo. Il giorno dopo ancora, l’assurdo rituale si ripete.

E così lo stesso per giorni e giorni. Di nuovo mi trovo a domandarmi: perché? Nessuno di noi conosceva a quel tempo le teorie di Pavlov e dei riflessi condizionati indotti nell’animale per ridurlo all’obbedienza assoluta. Obbedire, soltanto obbedire, immediatamente obbedire al suono di un comando. Come cani ammaestrati. E’ per questo che per settimane veniamo istruiti così, fino a quando non decideranno di trasferirci in un altro blocco di quarantena, quello di Gusen: primo campo contiguo a Mauthausen.Il blocco di quarantena del campo di Mauthausen era chiuso tra alte mura. Ma al di là delle mura c’era un’altra baracca nella quale erano chiusi in isolamento gli ufficiali sovietici prigionieri di guerra che si erano rifiutati, in base alle convenzioni di Ginevra, di lavorare nell’industria bellica del Reich e che per questo rifiuto erano già stati condannati dalla Gestapo al «trattamento kappa». Ossia Kugel, proiettile.

Questi uomini potevano quindi essere uccisi, in qualsiasi momento, con un colpo alla nuca. Ma li si lasciava lì, nella baracca, con l’intento di farli morire in un altro modo, più lento e più atroce: di fame. Non venivano lasciati completamente senza cibo: li si alimentava a gocce, per rendere più straziante l’agonia. Era la "sapienza" nazista nel trattare i nemici. Ogni giorno ne morivano venti o trenta.
All’alba, alla sveglia, dovevano uscire dalla baracca e a gruppi di cento, scalzi, coperti di piaghe, si dovevano sdraiare per terra all’ordine «Nieder» (giù, abbasso). Così veniva fatto l’appello.

Poi, in fila indiana, dovevano strisciare carponi. Quindi dovevano alzarsi e restare fermi in piedi nel cortile davanti alla baracca, al caldo dell’estate o al gelo dell’inverno. Quando faceva freddo questi poveri uomini si appallottolavano tra di loro, formando, come le vespe, una palla, un fornello. Chi era all’interno della «palla» si riscaldava mentre il resto della «palla», con un movimento continuo, spostava quelli che stavano al centro verso l’esterno e viceversa.

Nel gennaio 1945 arrivò un nuovo gruppo di ufficiali sovietici. Avevano tentato la fuga ed erano stati condannati al trattamento Kugel.

I componenti di questo gruppo capirono perfettamente a che cosa andavano incontro e decisero di fare una cosa coraggiosissima per chi è chiuso in un inferno simile: scegliere essi stessi come morire. Non lasciare i nazisti padroni del loro destino. Decisero quindi di tentare la fuga, ben sapendo che anche solo il tentativo di scappare li avrebbe portati a una morte immediata.

Scavarono con le mani il terreno attorno alla baracca, si procurarono delle pietre, presero due estintori e una notte, in cinquecento, provarono a fuggire. Fecero saltare la corrente ad alta tensione che percorreva il filo spinato sulla sommità del muro di cinta gettandovi sopra coperte bagnate. Aggredirono i militari di guardia sulla prima torretta con delle tavole. E si misero a correre. Lasciarono sul terreno innevato una scia ininterrotta di morti e di sangue.

In pochi riuscirono ad allontanarsi dal campo. E per quei pochi si scatenò subito una caccia all’uomo alla quale parteciparono tutti i soldati delle SS e tutti i civili della zona: alcuni erano volontari, altri costretti a collaborare. La caccia all’uomo finì dopo molti giorni con l’annientamento di quasi tutti i cinquecento ufficiali sovietici che avevano tentato questa loro ultima spaventosa avventura. Spaventosa, ma forse non folle come potrebbe apparire. Undici di questi ufficiali riuscirono a sopravvivere. Liberi. Famiglie di contadini austriaci, come si seppe poi, li avevano ospitati e tenuti nascosti. E tanto basta per continuare a credere nell’uomo.



Appunti da: La Stampa

Anonymous, la protesta ai tempi del Web 2.0

Appunti da: Repubblica


Gli hacker attivisti fanno paura al potere. Così stanno protestando per la chiusura di Megaupload

di TIZIANO TONIUTTI






PER ORA è cronaca: la chiusura 1 della piattaforma di condivisione Megaupload/Megavideo da parte dell’Fbi ha provocato una contromossa di Anonymous, la legione di hacker senza volto e senza nome, che ha sferrato un attacco verso importanti siti istituzionali e commerciali statunitensi. Giù le homepage del dipartimento di Giustizia, della Riaa e della Mpaa, le potentissime associazioni delle industrie discografiche e cinematografiche Usa. In Rete perfino i dati personali del capo della Fbi, Robert Muller: una beffa atroce: E giù anche il sito della Universal, tanto per gradire. Certo azioni illegali, a fronte della legalità dell'intervento federale su Megavideo. Ma che hanno un peso di rilievo assoluto nella ridefinizione della bilancia dei poteri nell'epoca digitale, e sono il tornasole dell'esistenza di categorie nuove, e della necessità di codificarle nella legalità e nella società.

Per ora è cronaca, in realtà è epica contemporanea. Hacker contro le decisioni del Federal Bureau e le pressioni delle lobby sulla politica, che per la prima volta nella Storia portano una reazione che parte dalla base della società digitale allo stesso livello di quella calata dall’alto dal potere delle amministrazioni. La web-war tra gli Usa e Anonymous è l’attualizzazione dei moti popolari. Perché la tecnologia è lo strumento principale che l’uomo contemporaneo ha per avvicinarsi alla libertà. E questo lo sa bene il potere, quanto la società. Che nelle avanguardie delle democrazie più compiute è istruita, formata ed è uscita dal tunnel dell’ipnosi televisiva e conosce mezzi e strumenti di intervento sulla realtà. Lo sa bene l’industria, consapevole di essere superata nei prodotti e negli strumenti di produzione, nell’utilizzo delle risorse umane e tecnologiche, nell’individuazione delle sorgenti di reddito e guadagno. Un ancien regime che come sempre è accaduto nella storia resisterà fino all’inevitabile travolgimento, con molte più perdite di quelle che porterebbe un’evoluzione pilotata e ragionata. Che magari potrebbe anche riconvertire al rialzo e con successo le professioni e le professionalità.
Anonymous dice al mondo e ai poteri, “come tu chiudi questo, io posso chiudere te”. Se le cronache mostrano un popolo nuovo fatto anche di gente che occupa Wall Street, le azioni di Anonymous sono dimostrazioni pratiche della ridistribuzione del potere che l’avanzamento tecnologico porta in dote. Perché è questo il denominatore della questione e non, come appare alla prima occhiata, il duello delle industrie buone e degli sceriffi contro i cattivi pirati che vogliono rubare musica e film, o almeno goderne senza pagare.

Il motto di Anonymous è un’epigrafe elegante e a suo modo poetica, in cui il concetto di divisione per zero serve a chiarire come l’unità della struttura sia indivisibile: “United as one, divided by zero”, liberamente tradotto, “Uniti siamo uno, divisi da nessuno”. Anonymous adotta uno slogan che nel tempo si è ripetuto molte volte e in molte forme. Dai moschettieri di Dumas agli Sham 69 di “If the kids are united they will never be divided”, dal romanzo d’appendice al punk degli anni 70. Ma sempre nella cultura popolare. E questo è Anonymous: cultura popolare contemporanea, agglomerato dei concetti fondativi degli ultimi decenni di mercato, di scienza, spettacolo, letteratura, musica. E’ il frutto maturo della generazione multimediale, che per la prima volta ha la consapevolezza di un potere e lo usa per insorgere contro un mondo che vede antico e che ostacola la nascita di nuove categorie. Di pensiero, di mercato, di società.

E così, è la nascita e l’esistenza di Megavideo-Megaupload, e non la sua chiusura con la forza bruta, a evidenziare la crisi di tutto un sistema industriale e sociale. Che nonostante tutto, guadagna e distribuisce dividendi: come ricorda forse involontariamente Enzo Mazza della Fimi, la federazione dell’industria musicale italiana: “La chiusura di Megaupload rappresenta un segnale forte e lancia un messaggio chiaro ed inequivocabile alle altre piattaforme che offrono servizi simili”, scrive Mazza in un comunicato ufficiale. E aggiunge: “In Italia il mercato della musica digitale legale nei primi 9 mesi del 2011, ha raggiunto il 23% con un fatturato di quasi 19 milioni di euro ed una crescita, rispetto allo stesso periodo dall’anno precedente, del 17%”. Una crescita del 17% in un anno, con la crisi che morde. E soprattutto, con Megaupload e decine di altri servizi analoghi, i cosiddetti “cyberlocker”, attivi e prosperi.

L’uomo di oggi nella migliore delle ipotesi nasce connesso a un mondo nuovo che spinge per fiorire, concimato da un mondo vecchio in crisi di evoluzione. Uno scenario che qualcuno, come Apple, ha saputo trasformare in opportunità. Chiudendo il suo ecosistema per rimanere protetti, ma anche, molto oculatamente, per non calpestare le aiuole altrui. E diventando in breve tempo leader dei nuovi mercati.

Anonymous non è quindi il Robin Hood che ridà ai poveri quello che lo sceriffo di Nottingham vuole togliere. E’ una struttura sociale determinata dalla tecnologia, con la capacità di intervenire sulle infrastrutture digitali che reggono il modo di oggi. E’ uno strumento di potere del popolo di oggi, che il popolo non ha mai avuto in questa forma e con questa forza.
Le menti di Anonymous sono potenzialmente in grado di compromettere la stabilità dei sistemi mondiali. E allo stesso tempo, di ricostruirne altri. Quello dell’elite hacker è un asse di potere globale, e assieme una rappresentanza, benché senza nome, dei nuovi popoli, mescolati e globalizzati tanto quanto le multinazionali. Dall’ultima generazione analogica, quella dei quarantenni di oggi, ai nativi digitali che usano la tecnologia d’istinto.

Il potentissimo controattacco di Anonymous ai “powers-that-be” dell’industria e della politica dimostra l’esistenza di un soggetto sociale e quindi politico che incarna un’evoluzione avvenuta. E che rende palese come una road map fatta di chiusure di siti e di server non porti da nessuna parte. Sicuramente non verso le possibili idee di futuro e di progresso che nonostante la complessità degli scenari, è possibile e doveroso tracciare.
(20 gennaio 2012)


Appunti da: Repubblica

lunedì 2 gennaio 2012

Hitler è ancora tra noi? (The Gernsback Continuum)



Qualche settimana fa ho letto per caso un post di Wu Ming (L'Occhio del Purgatorio, la Rivolta e l'Utopia) che analizzava un racconto di William Gibson del 1981: The Gernsback Continuum. Il tema del racconto mi è sembrato interessante: è la storia di un fotografo che, dopo aver realizzato un servizio sull'architettura "futuristica" americana degli anni '30, si ritrova intrappolato in visioni di una sorta di "futuro parallelo", popolato da gigantesche autostrade a corsie multiple, enormi dirigibili Zeppelin, e biondi automobilisti ariani. Per salvarsi da queste visioni di una realtà parallela, il protagonista, su consiglio di un amico, si rifugia nella letteratura porno e nelle storie "pulp". Il testo completo del racconto di Gibson, in inglese, è reperibile qui.

Il tema di una realtà "parallela", una realtà in cui hanno vinto i nazisti, non mi sembra così fantascientifico. Dopotutto, fino alla Seconda Guerra Mondiale, i rapporti tra Hitler e l'IBM (guidata da Thomas J. Watson, ritratto nella foto precedente assieme ad Hitler) erano ottimi. L'IBM ha fornito, con la tecnologia delle schede perforate, un contributo determinante alla deportazione degli ebrei nei campi di concentramento. Fino alla Seconda Guerra Mondiale, la Germania di Hitler è stata il secondo maggior cliente dell'IBM, subito dopo gli USA. Dopo la guerra, il nazismo è stato sconfitto, ma l'IBM ha fatto ottimi progressi. Forse viviamo davvero in una realtà parallela. Forse bisogna imparare a leggere tanti piccoli segnali segnali. O imparare a non leggerli, per non esserne perseguitati. Un pò come ha fatto il protagonista del racconto di Gibson, The Gernsback Continuum.

A volte le nostre visioni possono essere veramente persecutorie, veramente difficili da ignorare. C'é stata la strage di senegalesi, a Firenze, nel dicembre 2011, ad opera di Gianluca Casseri, un militante di CasaPound. Gad Lerner ha pubblicato sul suo blog un post da titolo inquietante: "Un Natale che piacerebbe a Hitler?". Siamo sicuri di non vivere in una "realtà parallela", dove hanno vinto i nazisti? Una realtà simile a quella del racconto di Gibson? Possiamo fare qualcosa per difenderci? Forse sì. Dopotutto, ai tempi di Hitler Internet e il blogging non erano ancora stati inventati.

Sicuramente Internet e il blogging non sono la panacea per tutti i mali, ed è sbagliato contare troppo sulla tecnologia. Ma se Internet e il blogging ci fossero stati ai tempi dei nazisti, forse le cose sarebbero andate un pò meglio. Non voglio essere superficiale e semplicista. Forse sono solo un pò visionario. Ma le schede perforate e i computer mainframe dell'IBM mi sembrano molto "di destra". Invece Internet, il PC e il libero blogging mi sembrano molto "di sinistra". Finchè non ce li tolgono.

Monta la protesta contro i caccia F35: "Costano troppo, il governo non li compri"

 

Appunti da: Repubblica

 

Si allarga lo schieramento di chi dice no all'acquisto di 131 cacciabombardieri. Di Pietro: "Scandalo insopportabile". Raisi: "Costano quanto una Finanziaria". Bonelli: "Il governo tace". E il Pd chiede a Monti un "ripensamento". Vendola attacca il ministro: "Tagli del personale per avere più risorse da destinare agli armamenti e alle missioni. Il rischio è questo e va contrastato"

 



ROMA - Meno spese militari, c'è la crisi. Le difficoltà economiche del nostro Paese si portano dietro l'allargamento del fronte "pacifista" che una volta reclamava a gran voce il taglio delle spese militari. Ebbene quello schieramento, un tempo terreno di militanza della sinistra, si estende adesso a insospettabili sostenitori. Da Fli all'Idv è un coro: c'è la crisi, stop alle spese militari. Ed è una protesta basata su ragioni prettamente "economiche". A farne le spese soprattutto il recente acquisto dei 131 caccia F35 da parte dell'esecito italiano 1. Una spesa non da poco: più di 200 milioni ad aereo. Troppo, in tempi di magra. Tanto che persino Israele e il Regno Unito hanno dovuto tagliarne i programmi e il Pentagono ha ridimensionato le richieste.

Ed ecco che il fronte degli oppositori trova nuovi seguaci. "E' giunto il momento - scrive l'esponente di Fli Enzo Raisi - di rompere un tabù, o almeno di rimetterlo in discussione. E' quello degli sperperi in spese militari legate ancora al vecchio schema degli anni della guerra fredda. Ad esempio, il recente acquisto dei caccia F35, per un valore analogo a quello di una manovra finanziaria". Secondo Raisi, "il governo Monti dovrebbe riflettere e riaprire anche il capitolo della dismissione dell'enorme patrimonio di ex caserme e strutture abbandonati dalla difesa: si individuino procedure-lampo per immetterli
sul mercato visto che quelle esistenti sono lunghissime e inefficaci".

Il tema è da tempo nel mirino dell'Idv. Per questo Di Pietro ne rivendica la primogenitura: "Meglio tardi che mai. Alla fine anche la grande stampa e qualcun altro si sono accorti che scandalo insopportabile siano i miliardi di euro che buttiamo in spese militari. Soprattutto se si pensa che per il Servizio civile nazionale, invece, i fondi sono precipitati dai circa 170 milioni del 2010 ai 68 del 2012. Quando il ministro della Difesa ammiraglio De Paola ha detto che a tagliare le spese militari non ci pensava proprio, nessuno tranne noi aveva fiatato".

Incalzano anche i Verdi: "Dal governo non è ancora arrivata nessuna risposta sul taglio delle spese per gli armamenti che in Italia hanno raggiunto cifre da capogiro - dichiara il presidente Angelo Bonelli - Ognuno di questi aerei da guerra costa più di 120 milioni, ossia l'equivalente di quanto è necessario per costruire e far funzionare 83 asili nido".

E Nichi Vendola, su Twitter, che chiama in causa il ministro della Difesa: "Le Forze Armate sono sovradimensionate, costano troppo, ci sono troppi soldati e soprattutto troppi ufficiali e sottoufficiali: così più o meno il ministro Di Paola nel suo messaggio di fine anno. In tutto180 mila militari, spese record, sprechi, inefficienze, privilegi ingiustificati. Ridurre e modernizzare il personale? L’idea del ministro è questa, insieme salvando, ovviamente, i sistemi d’arma, gli F35, la missione in Afghanistan. Tagliare da una parte – se si taglierà – per avere più risorse da destinare agli armamenti e alle missioni. Il rischio è questo. Da contrastare".

Dal Pd si alza la voce critica della senatrice Roberta Pinotti, ex responsabile nazionale Difesa: "Non servono 131 caccia, il governo potrebbe ridurre l'acquisto a 40-50''. Il collega di partito Ignazio Marino chiede un deciso taglio degli armamenti: "Con il solo costo di due cacciabombardieri F-35 si potrebbero trovare fondi per il sostegno dei giovani precari oppure sostenere investimenti per la ricerca e l'innovazione". Uno stop lo chiede, anche se con parecchie sfumature e distinguo anche il dipartimento esteri dei democratici che suggerisce a Monti una fase di  "sospensione" e "ripensamento".


(02 gennaio 2012)

Appunti da: Repubblica

 

 

Il Social Networking funziona anche per i lupi!







Un lupacchiotto impara a ululare davanti al monitor del computer.

Il Social Networking funziona anche per i lupi!|

No all'incarcerazione di Christa Eckes!




Il 1. dicembre 2011 la Corte d'appello di Stoccarda (Oberlandsgericht Stuttgart) ha deciso che l'ex militante della Rote Armee Fraktion (RAF) Christa Eckes deve essere imprigionata per 6 mesi poiché si rifiuta di testimoniare.

La 'Beugehaft' è la carcerazione coercitiva prevista dal codice tedesco per costringere un testimone a rivelare quanto di sua conoscenza. Christa è gravemente malata, in cura per leucemia, e questo ordine di carcerazione potrebbe essere la sua condanna a morte.


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"Da qui truffiamo il mondo"


Appunti da: La Stampa


Viaggio a Ramnicu Valcea, la capitale romena degli hacker.
Diventata florida grazie a Internet

PIERANGELO SAPEGNO

 













Di là dal fiume ci stanno tutti quei palazzi grigi e squadrati da edilizia popolare degli anni comunisti. Ma all’ingresso della città, nel quartiere di Budest, la Mercedes Benz ha aperto proprio qui una delle più grandi concessionarie della Romania. È una strana città, Ramnicu Valcea. Fra le sue vie coperte da queste edifici in stile caserma e attraversate da una miriade di Bmw e Audi nuove di zecca, ci sono tanti di quei bar e club privati come se li sognano a Bucarest. Stanno sempre aperti, tutte le notti: è che qui ci lavorano gli hacker, giovanissimi maghi dei computer che organizzano false vendite in rete e furti di carte di credito. Questa è la capitale della truffa su Internet. Lo è dal 2000: solo che prima erano dei principianti e li beccavano tutti. Adesso si sono fatti furbi, hanno creato una rete con strutture fantasma nei vari Paesi del mondo (Stati Uniti soprattutto, ma anche Germania, Olanda, Francia, Svizzera) che riescono a far girare i soldi truffati e farli sparire in questo grande mare. Così non li beccano più, e in America non sanno come fare. L’ultimo colpo, luglio 2011, ha portato via 20 milioni di dollari a cittadini statunitensi.

Così, il direttore dell’Fbi Robert Mueller se n’è venuto da New York apposta, ha fatto visita al presidente Traian Basescu, e poi ha messo su in fretta e furia una squadra speciale di 600 poliziotti rumeni da addestrare bene, «perché questa storia è diventata una minaccia per il mondo», ha detto. Tutta colpa di questa città, che sta ai piedi dei Carpazi, 110 mila abitanti con i suoi caseggiati popolari anni Cinquanta, 175 km da Bucarest e 123 da Craiova, la «Silicon Valley del furto su Internet», come l’hanno chiamata i giornali americani. Anche «Le Monde» ha mandato qui un suo inviato per un lungo reportage. Il procuratore Danusia Boicean ha spiegato come questa rete di truffatori organizzi finte vendite e aste truccate su eBay di prodotti elettronici, macchine, vestiti, e riesca pure a inserirsi sui conti bancari.

L’80 per cento delle vittime è negli Stati Uniti, ma negli ultimi tempi gli hacker di Ramnicu Valcea hanno allargato il loro giro d’affari anche in Europa. Ora che si è mossa anche l’Fbi, la Polizia ha ottenuto qualche risultato e gli agenti hanno appena arrestato «25 persone, tutte dai 18 ai 35 anni, che avevano sottratto 120 mila euro a cittadini americani, svizzeri, francesi, austriaci e tedeschi», come racconta Danusia Boicean. Ma tutto questo è una goccia nel mare. Il fatto è che questa città è davvero uno strano posto. L’unica industria che funziona - si fa per dire - è quella degli hacker. Non ci sono altre attività, non c’è altro lavoro. E tutto il resto, che produce qualche entrata, sembra girare attorno a questo mondo.

Eppure, questo è un luogo storico, come testimoniano qualche antico palazzo sopravvissuto alle piene del fiume Olt e il suo giardino pubblico, una sorta di piccolo parco tirato su per festeggiare la vittoria della Rivoluzione. C’è qualche hotel pretenzioso, come il Central Calimanesti, ci sono pensioni e alberghetti sulla prima collina, immersi nel verde. La città è stata quasi tutta ricostruita a mezza costa, perché quella originaria, era stata più volte distrutta dalle piene.

Ma entrando dal ponte sulla strada che viene dalla Statale 64, quello che colpisce è questo vento di benessere che soffia su una città dall’immagine comunque popolare, da regime comunista: nel centro e in periferia, come ha raccontato anche «Le Monde», in questo viavai di Audi e Bmw, macchine simbolo del successo da arricchimento, la società Western Union, specializzata nel trasferimento di soldi e capitali, ha aperto una ventina di uffici. Di notte, poi, i bar e i club si riempiono di questi maghi del computer, ragazzotti attaccati a un mouse e a una pinta di birra, per inventarsi vendite sperdute nel mondo in collegamento con i loro complici fantasma. Fra di loro non si conoscono e il passaggio di soldi è lungo e complicato, da un fantasma all’altro. Fino alla capitale, nella terra di Dracula, dove dietro allo schermo c’è solo una faccia coi brufoli con una maglietta da mercato. L’ultimo dei fantasmi è questo qui.



Appunti da: La Stampa